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26.1.13

Quando gli antibiotici non funzionano più




Nel non molto lontano 1928 una scoperta ad opera di Alexander Fleming che cambiò la vita del genere umano: la penicillina. Una muffa che inibiva la crescita dei batteri, osservata in verità per la prima volta nel 1895 dal medico italiano Vincenzo Tiberio, che aveva notato che la sua famiglia soffriva di infezioni intestinali ogni volta che il pozzo da cui si attingeva l’acqua veniva ripulito da alcune muffe che si formavano sulle pareti. Tiberio mandò avanti alcuni esperimenti per confermare la sua teoria, i cui risultati furono però freddamente accolti dal mondo accademico (fonte).

Il 18 novembre scorso si è tenuta la Giornata Europea degli Antibiotici, istituita dall’Unione Europea per sensibilizzare ad un corretto utilizzo degli antibiotici, ma anche alla resistenza di ceppi di batteri che, proprio a causa di negligenza, aumentano la loro resistenza, rendendo i nostri farmaci via via meno efficaci: già oggi si conoscono batteri di Escherichia Coli o Gonorrea resistenti a tutte le terapie antibiotiche tranne una. Dopo questa data, l’attenzione sul problema è stata portata questo mese anche dalla dr.ssa Sally Davies, che in Gran Bretagna è consigliere nazionale per la salute.  

Vediamo qual è il comportamento adeguato nell’uso degli antibiotici:
·         portare a conclusione la terapia: interromperla (anche in caso di remissione dei sintomi) è controproducente, in quanto non uccide tutti i batteri e rende più forti quelli rimasti; il risultato è che, in caso di necessità, non avremo farmaci resistenti e i questi batteri si diffonderanno alla popolazione;
·         limitarne comunque l’uso allo stretto necessario: gli antibiotici inducono comunque resistenza nei batteri, conseguenza arginabile con un corretto uso;
·         prenderli solo quando prescritti da un medico: spesso vengono presi erroneamente quando non sono necessari, come in caso di infezioni virali (raffreddori, inflenza, ecc.), o per autoprescrizione.
L’eccessivo e scorretto ricorso agli antibiotici ne ha fatto perdere drasticamente efficacia. Come già scritto, il pericolo annunciato (e quindi non eventuale) è che non avremo più farmaci efficaci e un’infezione batterica comune oggi ancora contrastabile (come la polmonite) sarà causa di morte.
Gli antibiotici vengono utilizzati scorrettamente persino negli ospedali, con prescrizioni e somministrazioni improprie, non necessarie o sbagliate. Questo causa un’ospedalizzazione più lunga, un peggioramento delle condizioni mediche del paziente e, ovviamente, una diffusione di batteri resistenti in un ambiente critico (fonte).


Su Eco-Sphera abbiamo già parlato degli antibiotici nel post dedicato agli allevamenti intensivi. In quel post abbiamo riportato quanto affermato dall’Istituto Zooprofilattico Sperimentale delle Venezie, che è il referente nazionale per il controllo delle resistenze antibiotiche degli allevamenti industriali. Secondo l’IZSVe, le modalità di allevamento intensivo comportano un aumentata possibilità di contrarre e diffondere una malattia, a causa dell’altissima densità degli animali: è come se volessimo raddoppiare i bambini in un’aula e farceli stare tutto il giorno tutti i giorni. Per prevenire la diffusione delle malattie, si usa un’elevata quantità di antibiotici, pratica che si è vantaggiosa anche perché fa sviluppare e crescere gli animali più velocemente. Insomma, una benedizione per gli allevatori. Queste pratiche, vietate in Europa, sono tuttavia mandate avanti nel nostro Paese e senza un serio controllo. Anzi: neppure l’Istituto Superiore di Sanità è a conoscenza del dosaggio di antibiotici negli allevamenti, un fatto che apre la strada a sovradosaggi e abusi.


Ma c’è un terzo responsabile per questo problema, un agente che dovrebbe provvedere in prima persona a fornire strumenti sempre più efficaci: l’industria farmaceutica. I suoi laboratori, infatti, si concentrano soprattutto sulle malattie croniche: i farmaci venduti per questo tipo di malattie forniscono un profitto molto elevato, in quanto vanno assunti per tutta la vita.





Leggi gli altri articoli sulla dieta vegetariana!


14.1.13

A quanto corrisponde una porzione di cibo?


Molti, se non tutti, sanno che una corretta alimentazione comprende almeno cinque porzioni di frutta e verdura ogni giorno. Questo tipo di alimentazione, oltre ad essere sana ed adeguata, introduce anche molti sapori diversi che possono accontentare tutti i palati, grazie all'enorme varietà di frutti e vegetali prodotti dalla nostra terra.

La parola "porzione", tuttavia, non è molto esplicativa.
Un mandarino corrisponde a quante ciliege? O a quanti spinaci?

Ecco un piccolo schema che può aiutarci a capire di quanta frutta e verdura parliamo quando usiamo la parola "porzione".

Frutta: 150g
Frutta secca e semi: 30g
Verdura: 100g


Per esempio:
1 frutto grande = 1 porzione (mela, pera, arancia, kiwi)
2 frutti medi = 1 porzione (mandarini, prugne, albicocche, pomodori)
10/12 frutti piccoli = 1 porzione (ciliege, fragole, gelsi, more).


Le porzioni non si riferiscono solo ai gruppi alimentari di frutta e verdura. Infatti anche cereali e legumi sono divisi in porzioni facilmente calcolabili:

Cereali e legumi crudi: 30g
Cereali e legumi cotti: 80g.

E quante porzioni di quali alimenti dovremmo mangiare quotidianamente? Le quantità cambiano a seconda delle calorie che si vogliono e/o devono assumere. La tabella seguente ne dà un'idea (NB: non sono inclusi i grassi):




2.1.13

Invecchiamento attivo

C'è ancora aria di festa nell'aria. E le feste come il Natale fanno sempre pensare alla famiglia. Un famoso detto recita "Natale con i tuoi, Pasqua con chi vuoi", sottolineando l'importanza di passare le feste di fine e inizio anno in famiglia, tutti raccolti intorno alla tavola.
Quest'anno nella mia famiglia mancano due persone importanti, due dei miei nonni. Sono stato tanto fortunato a poter conoscere e passare tanto tempo con tutti e quattro i miei nonni. Ho ben presente in me quanto importanti siano state le cose che mi hanno detto, letto, insegnato. Con quella pazienza e quella relazione che può esserci tra due persone così differenti in età e che si vogliono bene per un legame particolare.
E' ai miei nonni, ai nostri nonni, che dedico il primo post dell'anno 2013.




Invecchiamento attivo: dall'Italia all'Europa

I miglioramenti nella nutrizione, nella salute e nell’istruzione e il declino del tasso di fertilità sono tutti aspetti demografici che hanno ottenuto, combinandosi, l’effetto di un innalzamento dell’aspettativa di vita (almeno nell’occidente industrializzato) e di conseguenza un aumento della popolazione in età anziana e senile (Di Prospero, 2004).
Quella dell’anziano, oggi, è una condizione generalmente con tanti “più”: più salute, più istruzione, più voglia di vivere.  L’obiettivo è di mettere a frutto questo indubbio vantaggio (Donaggio, 2007) che, se non riconosciuto, dimenticato o trascurato, potrebbe evidenziare solo i problemi e i disagi legati a questo inarrestabile cambiamento demografico.
Secondo le ricerche, infatti, l’Europa nel 2025 potrà vantare ben il 35% di anziani e l’Italia è la nazione dove questo progressivo invecchiamento della popolazione si presenta con maggiore evidenza. Si può leggere quindi dai dati l’urgenza di un’azione a livello mondiale. E infatti L’OMS si è mossa in questa direzione coniando nel 2002 un nuovo termine, active aging (invecchiamento attivo): in età anziana e senile, la partecipazione continuata alla vita sociale, economica, spirituale, culturale e civica dà la possibilità di migliorare la propria qualità di vita (Di Prospero, 2004).
Si è evidenziato che, con il pensionamento, la persona perde un punto di riferimento molto importante, ovvero l’essere utile socialmente. Al di là dell’importante mestiere di nonno, infatti, il giovane anziano di 65 anni si ritrova con una grande quantità di tempo utile che, nella maggior parte dei casi, impiega in maniera inutile: in pratica, una perdita di tempo. Questo è dovuto al disorientamento causato dalla perdita di un chiaro ruolo sociale. Per questo è necessario “una vera e propria educazione al pensionamento, visto che dopo la pensione oggi si possono vivere ancora 20 o 30 anni. E’ assurda quindi una società che non sa sfruttare al meglio tutte queste risorse di esperienza e di vita costruite nel tempo” (Andruccioli, 2007).
L’esperienza, il bagaglio culturale e di vita, la saggezza e l’expertise professionale della persona anziana sono immense risorse sfruttabili ma che anche l’anziano stesso chiede che vengano sfruttate, pena il pericolo di emarginazione sociale e depressione.
Il grande interesse di fronte al miglioramento della qualità della vita e all’introduzione di uno stile di vita attivo, soprattutto per fare in modo che l’invecchiamento non sia un percorso doloroso e peggiorativo, ma sia un processo “di successo” e di integrazione sociale. Condizione fondamentale per creare tale integrazione è cambiare il modo di vedere la vecchiaia: se si considera l’invecchiamento come un progresso, una crescita non solo limitante ma al contrario la possibilità di fare ricorso a competenze ed esperienze allora sarà naturale vederlo come un fattore positivo per la crescita di una società matura, pienamente integrata e a misura d’uomo.

Il Nonno Vigile

Un primo passo verso il riconoscimento e l’uso delle risorse e del tempo che la persona anziana può dare è stato fatto a livello comunale con l’istituzione di una figura del tutto nuova: il nonno vigile. Il servizio di nonno vigile consiste nell’utilizzo di pensionati per un servizio di sorveglianza fuori dalle scuole primarie e medie negli orari di entrata ed uscita degli alunni.
Questi sono i vantaggi più evidenti di un’attività di questo tipo:
·                    L’anziano sente di avere un ruolo ancora attivo nella società, nonostante il pensionamento: riceve infatti un compenso per il suo lavoro, proprio come negli anni precedenti.
·                    Il nonno vigile continua ad avere rapporti interpersonali di tipo lavorativo sia con i colleghi che con gli utenti, mantenendo un buon bagaglio di socialità.
·                    I bambini sono portati istintivamente a fidarsi di figure come quelle dei nonni che significano fiducia, accoglienza, protezione.
·                    L’indubbio vantaggio intrinseco dell’attività, ovvero la protezione dei bambini nell’uscita da pericoli di ogni tipo.
Si nota, quindi, che il guadagno è notevole per tutti i soggetti coinvolti e l’obiettivo di active aging è mantenuto.
 

Il volontariato

L’aspetto economico di un lavoro è sicuramente un fatto importante. Lo è anche per l’anziano che, solitamente, vede diminuire le entrate finanziarie con il passaggio al pensionamento. Di conseguenza il servizio di Nonno Vigile è sicuramente un ulteriore aiuto per il pensionato, che viene scelto per questo lavoro anche in base al proprio reddito.
Tuttavia non è il pagamento ricevuto che spinge un anziano a continuare a dare il proprio contributo, bensì l’aspetto relazionale e l’aspetto della propria utilità sociale. In questo contesto si inserisce il tema del volontariato, che proprio nella persona anziana acquisisce un aspetto molto importante. Il volontariato, come sappiamo, è un’attività non retribuita e svolta in base a un desiderio personale (Di Prospero, 2007), importante oggi più che mai in quanto coloro che donavano in passato più di chiunque altro il proprio servizio volontariamente, le donne, sono sempre più impegnate nel lavoro, mentre la domanda di assistenza cresce e il costo del personale retribuito pesa sulle finanze dello Stato. Una ricerca di Chapell, Prince e Zenchunk evidenzia come, dopo i 65 anni, l’aspetto altruistico del volontariato abbia una rilevanza maggiore che quello egoistico. Sì perché ovviamente anche il volontariato ha il suo lato egoistico, rappresentato dalla necessità di mantenere o ampliare la rete di sostegno informale, il proprio senso di autoefficacia e la consapevolezza del perdurare di attività (Omoto, Snyder, Martino 2000).

Think Future Volunteer Together

I benefici per l’anziano volontario, quindi, sono notevoli. Tanto che si è cercato di portare a un livello più ampio questa idea, oltre i confini del proprio paese, della propria città e anche della propria nazione. È il caso del progetto “Think Future Volunteer Together”. Scopo del progetto è promuovere il coinvolgimento attivo degli anziani nel volontariato in Europa attraverso la realizzazione di un programma di scambi internazionali. È organizzato e promosso da Spes Centro Servizio per il Volontariato del Lazio in collaborazione con aziende e associazioni delle altre nazioni coinvolte.
Coinvolgerà 100 volontari over 55 (con e senza esperienza) provenienti da Slovacchia, Slovenia, Ungheria, Romania e Italia. Durante i due anni di realizzazione del progetto ogni partecipante sarà coinvolto nelle attività di volontariato delle organizzazioni dei paesi partner grazie ad uno stage di 2 settimane preceduto da 3 giorni di introduzione alla lingua e alla cultura del paese ospitante.
Sulla base dell’esperienza maturata verrà presentato in una conferenza con le istituzioni nel 2009 a Bruxelles un rapporto con la proposta di programmi e azioni per il coinvolgimento attivo degli anziani nelle attività di volontariato.
Durante la conferenza stampa si sono evidenziati soprattutto i dubbi riguardo alla troppo breve abituazione ad un’altra lingua soprattutto per anziani che, a parte l’italiano, non hanno mai avuto seri contatti con altri idiomi, soprattutto quelli delle nazioni coinvolte. In realtà, come gli organizzatori hanno avuto modo di spiegare, le tecniche di abitazione e apprendimento di una nuova lingua utilizzate con i soggetti più anziani sono le medesime utilizzate per i bambini più piccoli e, nei loro studi, hanno ottenuto gli stessi ottimi risultati. Non bisogna comunque dimenticare che, seppure con l’età vi è un progressivo decadimento della memoria di lavoro, è proprio l’esercizio a rallentare questo decadimento e comunque la comunicazione interculturale non è fatta solo di parole. In ogni caso la presenza di interpreti e l’uso di frasi brevi, semplici e standard risolve qualsiasi problema.
“Think Future Volunteer Together” nasce dalla constatazione della difficoltà di coinvolgere nelle attività di volontariato persone adulte e anziane. Difatti i dati confermano come la fascia d’età più dedita al volontariato è quella degli adolescenti e dei giovani adulti, per poi perdere quota negli anni dell’adultità, effetto dovuto anche alla formazione di una famiglia e ai nuovi impegni lavorativi. Il progetto vuole così dimostrare come l’opportunità della mobilità transnazionale e lo scambio di buone pratiche possa stimolare l’impegno sociale, portando benefici sia alla persona che realizza sia alle comunità locali in cui si inseriscono.



          Conclusioni

Questi progetti sono inclusi in una serie di importanti provvedimenti statali ed europei nati dalla convinzione che l’implementazione del volontariato organizzato non solo favorisce l’aggregazione associativa come strumento per contrastare i rischi di esclusione sociale e realizzare nuove opportunità di relazioni, ma realizza grandi benefici per la comunità.
Di conseguenza quello dell’invecchiamento attivo non va inteso come evento fortuito, un’attività singola e non continua, ma come impegno costante socialmente riconosciuto e come risposta alla domanda di tutte quelle persone anziane che sanno e vogliono rimettersi in gioco per sentirsi parte attiva e protagonista degli assetti sociali ed economici del proprio Paese.

La sfida maggiore che i governi sono portati ad affrontare è quella, in conclusione, di abbinare all’inevitabile allungamento della vita anche attività e impegni lavorativi o di volontariato che diano un diverso significato alla parola “anziano”, oggi vista soprattutto come vecchio, inutile, solitario, se non disturbante. Strategico a questo proposito è il ruolo che gli anziani possono svolgere nell’ambito della società impegnandosi nei vari contesti che devono rispondere oltre che a motivazioni altruistiche e partecipative anche a istanze personali di valorizzazione, identità e ruolo sociale, pieno riconoscimento nel contesto  intergenerazionale.

Paolo Ferrero, ministro della Solidarietà Sociale nella passata legislatura, ha sottolineato come “l’invecchiamento attivo in Italia è il frutto delle lotte operaie e delle politiche di welfare. La terza età in Italia è un fenomeno nuovo ed è un elemento che la società di oggi non ha capito ancora bene si se stessa. Oggi la terza età è sotto attacco, oggetto di aggressioni pesanti dove si tenta di riplasmare di lavoro la vita. Restringere il potere del lavoro sulla vita è fondamentale. Per questo il tempo libero che hanno a disposizione gli anziani è una ricchezza straordinaria, si possono curare e produrre relazioni sociali. Il benessere di un paese non si può misurare più solo in termini di Pil e gli anziani non producono merci, ma relazioni sociali. Quando si è in pensione si può dare un grande contributo a costruire la società e ad arricchirla di relazioni sociali”. Si può parlare quindi di un vero e proprio “servizio civile” degli anziani, che non si sovrappone a quello dei giovani”.

Occorre infine fare un salto qualitativo nel vedere l’anziano in un’ottica che può andare oltre  il ruolo di lavoratore a riposo, per assumere quello di produttore e costruttore di relazioni e beni sociali nella comunità (Donaggio, 2007).



Riferimenti

Paolo Andruccioli (2007), Socialmente utili, anche da vecchi, www.dirittiglobali.it

Beatrice Di Prospero (a cura di) (2007), Il futuro prolungato, Carocci Roma

Cecilia Donaggio (2007), Focalizzazione sulle opportunità: l’invecchiamento attivo, estratto panel Sottosegretariato di Stato

Grano, Lucidi (2005), Psicologia dell’invecchiamento e promozione della salute, Carocci Editore

Laicardi, Pezzuti (2000), Psicologia dell’invecchiamento e della longevità, Il Mulino Bologna

Omoto, Snyder, Martino (1998), Motivation to Volunteer by Older Adults, in “Psychology and aging”
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